San Marco di Canelli

Che traspare nei piatti, in cui è il territorio a fare la differenza, interpretato con estro e genio.
Come nella scaloppa di foie gras con cipolla di tropea fondente al vermouth “Mainardi” e uvetta, nei tajarin ai 40 tuorli o nel cannellone di patata con baccalà mantecato, salsa di carciofi e polvere di tartufo nero. Energia e peso del tempo anche raccontati dagli interventi di Antonio Guarene, architetto del locale e del logo (un disegno di un leone che sarà copiato da molti, e modificato nella sola coda) seguito da quello di Michele Chiarlo che racconta di una cena al San Marco con un collaboratore francese, un gourmet, del suo importatore americano.
Una serata finita con uno stupore indimenticabile - anche per Chiarlo - quando l’ospite d’oltralpe scopre che lo chef è una donna, un’autodidatta, senza esperienze pregresse in ristoranti francesi. Tre a zero per Mariuccia, che successivamente diventerà insegnante ad Alma e all’Icif. E pensare che tutto è nato da qualche idea scaturita dalla lettura di qualche ricetta materializzata con l’ambizione, anche estetica, di chi sa osare impiattando ingredienti comuni capaci di influenzarsi tra di loro per forma e colori. O sapori? Non era questione di tecnica, l’equilibrio arrivava con la creazione e pratica.
E non dimentichiamoci che si era a meta degli anni settanta, internet, come molti altri confort, non esistevano.
Oggi restano le lettere e i ricordi degli incontri con Gualtiero Marchesi ma anche quelli con numerosi giornalisti quali Veronelli e Salvatore Marchesi che nel tempo sono passati da via Alba 136. Dove vige una costanza qualitativa infinitesimale, diventata polmone economico e turistico per Canelli, ancora oggi tra i principali punti di riferimento sia per i giovani che si avvicinano ai fornelli dopo gli studi e sia per i colleghi chef, d’oltralpe e non. La seconda stella non è mai arrivata e non mai stata ricercata. Il fatto di averla mantenuta per trent’anni ed esser stati tra i primi a prenderla vale quanto averne tre.
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